AllestimentoIl Museo Verde del Gran Chaco: innovativo, partecipato, sostenibile, internazionale

Il Museo Verde del Gran Chaco: innovativo, partecipato, sostenibile, internazionale

Affascinata dalla natura, che primeggia in tutta la sua energia come prova della sua potenza creativa, che sfocia nel suo continuo rinnovarsi, in certi luoghi dove il creato sembra impenetrabile e custodisce i suoi segreti più intimi, il progetto Museo Verde sembra prendere forma con tutte le sue evoluzioni abbracciando paesaggio e tradizioni.

Come nasce il progetto Museo Verde e quali sono i suoi obiettivi

Carta geografica dell'area centrale del Sud America, con in evidenza la regione del Gran Chaco
La localizzazione della regione del Gran Chaco nell’America del Sud. Una pianura estesa 1.300.000 kmq, è la seconda massa forestale del Sudamerica e comprende 23 etnie indigene. (Crediti fotografici: Gherardo La Francesca, Luca Rugiu)

Il territorio del Gran Chaco, che comprende parte della Bolivia, Paraguay, Argentina e il Mato Grosso Du Sul del Brasile, è protagonista di questo grande progetto che nasce nel giugno del 2015 da una missione archeologica del Centro Nazionale Delle Ricerche (CNR). Dal sogno di un Cacique del villaggio di Karcha Bahlut nel 2016 nasce il primo Museo Verde. Gli obiettivi sono quelli di creare alternative utili a trattenere i giovani dall’abbandonare i luoghi e le pratiche delle loro identità per andare alla ricerca di fonti di sostentamento che la caccia, la pesca e la raccolta di frutti selvatici non possono garantire.

Lo scopo del progetto Museo Verde

Persona con il viso dipinto e un copricapo di piume che tiene in mano una oggetto rotondeggiante decorato, in piedi fuori da un edificio rustico.
Uno sciamano indigeno (Crediti fotografici: Gherardo La Francesca, Luca Rugiu)

Il progetto ha come scopo quello di dotare le comunità indigene del Gran Chaco di un “carnet di identità”. Non di una semplice identificazione burocratica ma di un’identità primaria, fondata sulla ricostruzione della memoria di una specifica storia culturale, nata ancora prima della formazione degli stati nazionali. È da questa identità-madre che possono essere costruite le altre identità che compongono la complessità dell’essere umano. Il Museo Verde nasce dal desiderio manifestato dagli stessi indigeni di conservare la memoria in tutte le sue manifestazioni.

Un progetto di Cooperazione Internazionale

Dal punto di vista della Cooperazione Internazionale, la ricognizione delle popolazioni povere che restituisca loro identità e dignità costituisce un elemento fondamentale nelle politiche di riduzione della povertà e di attenzione alle popolazioni vulnerabili. Riconoscere la dignità delle persone povere è una delle premesse indispensabili per avviare qualsiasi processo di emancipazione. Il Museo Pigorini di Roma e l’Antropologico di Firenze hanno contribuito con la devoluzione di immagini di artefatti collezionate dall’artista ed etnologo Guido Boggiani a fine ‘800. Altre immagini sono state ottenute dal Museo Etnografico coloniale di Juan de Garay a Santa Fe di Argentina. Dal museo – sempre etnografico – Ambrosetti di Buenos Aires, dal Museo di Storia Naturale di La Plata, dallo Smithsonian Institution di Washington e dal Ethnologisches Museum di Berlino altri materiali ancora.

Diverse sedi per realizzare un museo diffuso sul territorio

Rappresentazione cartografica dell'area centrale del Sud America, che indica le sue principali suddivisioni geografiche.
Carta geografica che illustra lo sviluppo raggiunto dal progetto Museo Verde all’inizio del 2024. La rete dei musei, diffusa nei quattro paesi del Gran Chaco, comprende 11 etnie. (Crediti fotografici: Gherardo La Francesca, Luca Rugiu)

Così è partita la prima costruzione del Museo Verde che ha come sede Karcha Bahlut, che è luogo della memoria ancestrale degli Ishir/ Ibytoso. La seconda costruzione degli Ayoreo a Carmelo Peralta, la terza a Puerto Barras degli Ache (su loro richiesta per la costruzione dello stabile si sono usati materiali differenti) ed infine dei Toba a Fortin Lavalle. Le varie sedi museali fanno rete e organizzano attività in collaborazione tra loro, favorendo la creazione del museo diffuso come luogo della progettualità per il miglioramento delle condizioni di vita delle comunità indigene partecipanti.

La mission del Museo Verde e lo sviluppo territoriale basato sulla sostenibilità

I vari musei hanno come mission comune l’obbiettivo di migliorare le condizioni di vita dei popoli indigeni attraverso lo sviluppo territoriale fondato sulla sostenibilità nelle sue varie dimensioni: ambientale, economica, sociale, culturale e politico-istituzionale. Una delle minacce che incombe sulle popolazioni indigene è l’allontanamento dai luoghi natii e dalle pratiche della tradizione da parte delle nuove generazioni in cerca di fonti di reddito che la caccia e la raccolta non possono garantire. Il Museo Verde ha identificato quattro settori o filiere che possono diventare produttive, e contribuire allo sviluppo sostenibile locale di queste comunità e sono: la produzione artigianale degli oggetti della loro tradizione, la coltivazione e commercializzazione di piante officinali e aromatiche, l’eco-turismo, la gestione sostenibile delle foreste.

Quest’ultima, molto importante, perché si stanno disboscando vasti territori per praticare l’allevamento e l’agricoltura intensiva, per esempio molti terreni vengono disboscati perché le multinazionali cercano spazi per coltivare la soia. Quindi questi territori che erano il loro habitat sono minacciati di continuo, ma non solo, rischiano di diminuire mettendo anche a rischio l’intensa biodiversità presente nei vari habitat. Fino ad ora rispettati dagli indigeni che convivono nell’ambiente con le specie animali e vegetali della foresta, che conoscono e che considerano la loro casa.

Bioedilizia e progettazione architettonica sostenibile degli edifici

Karcha Bahlut, Paraguay. Il primo Museo Verde in una comunità Ishir, realizzato con tecniche e materiali tradizionali. Un moderno edificio in legno, sede del Museo Verde, costruito come una palafitta tradizionale.
Karcha Bahlut, Paraguay. Il primo Museo Verde in una comunità Ishir, realizzato con tecniche e materiali tradizionali. (Crediti fotografici: Gherardo La Francesca, Luca Rugiu)

L’edificazione dei musei non è stata casuale, i progetti sono stati seguiti dall’architetto Camilla Persi. Sviluppando alcuni disegni del Museo Verde, infatti il suo edificio ha tratti molto simili alle edificazioni già presenti nel villaggio. Le case che ci sono a Karcha Bahlut sono simili a delle palafitte. Quindi l’architetto ha preso in esame le abitazioni tradizionali, delle quali sono stati adottati – con poche varianti – metrature, strutture e materiali. In altri termini, il modulo abitativo tipico di questo villaggio è stato recepito quasi integralmente, con evidenti vantaggi in termini di reperibilità dei materiali, possibilità di utilizzo di manodopera locale, adattabilità all’ambiente e costi contenuti. Le tecniche di costruzioni sono artigianali, con l’utilizzo di caranday (un tipo di palma) a km 0 che è anche un materiale ad altissime prestazioni. Il fattore che ha reso riconoscibile il museo è la sua sopraelevazione, facendolo spiccare sulle altre palafitte del tutto simili che lo circondano. I vari musei costruiti in luoghi diversi seguono le caratteristiche autoctone poiché sono luogo di identità e memoria.

Un museo delle persone, per le persone, in equilibrio con la natura

Ma facciamo un passo indietro, la rete museale raccoglie e storicizza circa dodici etnie diverse. Ricorda e espone le differenti usanze, le tradizioni antiche e le credenze degli sciamani di ogni tribù, che avevano luoghi sacri e mondi intrisi di misticismo. Alcune tribù pensavano all’esistenza dell’anima e dello spirito. Quest’ultimo si incarna nella natura mandando messaggi a volte benevoli a volte maligni, da quest’ultimi era importante difendersi e proteggersi. Delle tribù erano più pacifiche altre si contendevano territori e spesso erano in conflitto. Ma all’interno di questo vi era un equilibrio che il Museo Verde cerca di riportare alla luce, soprattutto per evitare la sua dispersione dovuta anche alle incursioni iberiche e ai diversi colonizzatori che molto spesso si sono stanziati nelle terre indigene e alcune volte si sono appropriati di giovani fanciulle e di altre ricchezze. Molte tribù in questo momento storico si sono sgretolate e si sono mescolate con i nuovi arrivati. Ma quelli che noi chiamiamo indigeni in realtà facevano fatica a sottomettersi ai “padroni”, queste persone in realtà vivono in contatto con la natura e sono i veri ecologisti e protettori della natura. Si potrebbero definire cosmocentrici: cioè tutto il cosmo con i suoi esseri viventi e non viventi ha il diritto di esistere, rinnovarsi e prosperare, svilupparsi in modo sostenibile. Opposto a questo punto di vista è quello antropocentrico dell’Occidente: gli esseri umani si sentono superiori a tutti gli altri esseri ed hanno il libero arbitrio di usare ed abusare di tutte le risorse disponibili fino al loro esaurimento e distruzione senza alcuna cura per il futuro del pianeta. “La madre terra non si compra e non si vende”, non è un oggetto e non deve essere ferita.

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